Il giornalista Domenico Latino ricorda l’Ing. Marino …

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78° anniversario del bombardamento su Gioia Tauro. Ricordando l’ing. Michele Marino, uomo di grande cultura e straordinaria sensibilità.
di Domenico Latino

L’inverno del ’43 non stava trascorrendo poi così freddo e quel 20 febbraio c’era pure il sole a lambire i vicoli e accarezzare i tetti, magari fioco ma capace lo stesso di intorpidire piacevolmente i sensi. Gioia non aveva ancora conosciuto l’orrore di una guerra che, per i più giovani, era poco più di un film al cinematografo. Da qualche tempo, sempre più spesso, capitava di poter vedere alcune “scene”, le più salienti, come in un moderno 3D. Direttamente. Sicuri che il fronte si sarebbe mantenuto a debita distanza. Si cercava quindi in fretta un’altura da dove scorgere le bombe che cadevano su Messina e le raffiche della contraerea di fronte parevano, agli occhi ingenui di quei bimbi, meglio dei “fuochi d’artificio” per il Santo. Al “Mazzini”, costruito dall’ “Opera Nazionale Dopolavoro” giù per la discesa “i Giffuni”, c’era Iacoi, il gestore, che apriva subito dopo pranzo per il primo spettacolo o “la prima recita”, così come veniva chiamata, che, di solito, iniziava entro le 15. Quel pomeriggio, dava “Luciano Serra pilota”, un’altra pellicola di propaganda, con Amedeo Nazzari attore e Rossellini tra gli sceneggiatori, che raccontava le avventure di un intrepido della “Regia Aereonautica”. Su quella seggiola, “rapito” dal grande schermo, insieme ai fratelli Pino e Vincenzo “volava” tra i cieli anche Michele, allora quindicenne. Sembra di viverli quei momenti, negli occhi luminosi dell’ingegnere Marino, classe ’27, mentre narra gli istanti che precedettero il tragico “raid” aereo degli Alleati, di cui ricorre oggi il 74° anniversario, che provocò morte e distruzione. Si parlò quasi subito di “sciagurato errore”, per aver probabilmente scambiato i capannoni della segheria Caratozzolo, al quartiere Monacelli, per un deposito di armi. L’unica spiegazione “plausibile”, visto che, in quel periodo, Gioia non poteva costituire obiettivo bellico essendo le linee di guerra ancora molto lontane, né esistevano in zona impianti di carattere militare. Un’interpretazione che, ripetuta nel tempo, si cristallizzò come verità. Ma per Michele, rientrato a “casa” dopo una vita trascorsa a Torino con Gioia nel cuore, oltre ad essere falsa sarebbe priva di ogni logica. “Da ragazzo ebbi l’intuizione – spiega – oggi, leggendo anche diversi documenti, ne ho maturato la convinzione. Ho imparato la parola “terrore” durante i bombardamenti; a volte, aerei più leggeri scendevano a bassa quota e mitragliavano le campagne dove in molti sfollavano. Nello stesso giorno furono colpite anche Cittanova e Amantea. Per Cittanova, si disse che un tendone di un circo equestre era stato confuso con chissà cosa; e per Amantea fu pure un errore? Gli Alleati, all’inizio del conflitto, miravano a distruggere soprattutto stabilimenti industriali, vie principali di comunicazione, ponti. In seguito, dal 1942, cominciarono a sferrare una massiccia offensiva aerea contro i civili, con l’intento dichiarato di colpire e annientare il morale della popolazione. I bombardamenti, a loro dire, avrebbero persuaso gli italiani a ritirare il consenso al regime e, per rinforzare questa propaganda – evidenzia – le bombe erano precedute o seguite da lanci di volantini che incitavano alla protesta contro la guerra e le autorità fasciste”. È in questo contesto che il 20 febbraio 1943 una formazione di “fortezze volanti” (come venivano chiamati i potenti quadrimotori angloamericani) preceduti dal loro caratteristico rombo cupo e pauroso si presentò sui cieli di Gioia sganciando bombe che provocarono 45 morti. “Potevano essere le 16.30 – continua il suo racconto Marino, autore, tra l’altro, di parecchi volumi sulla storia di Gioia – e, sebbene in quel momento ci fossero delle scene di guerra, la terrificante realtà del bombardamento sovrastò ogni cosa: le finestre del cinema andarono divelte, in tutto il paese i vetri in frantumi. Ce l’ho ancora addosso il terrore. Scappammo subito verso casa, per via Roma fino a Largo Trieste. Lì vicino c’era un medico e la prima immagine fu quella di un via vai di persone con in braccio i feriti. Mio padre, per evitarci un ulteriore shock, ci nascose con altri parenti nello scantinato e ci disse di non muoverci di lì, mentre gli adulti andavano a prestare soccorso. A sera, il paese fu sfollato e io, insieme alla mia famiglia, riparammo a Rizziconi. Non di errore deve essersi trattato – conclude – bensì di deliberata azione terroristica”.

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